Quando Pepita è arrivata da me, la sua gabbia l’ho sistemata in bagno, posizionata proprio sopra la vasca. Sul fondo avevo steso i giornali e dentro c’era la sua casetta improvvisata: una scatola da scarpe riempita di paglia. Quello è stato da subito il suo piccolo regno.
Diffidente — com’è giusto che sia — ha iniziato pian piano a esplorare. Alex, del Centro Ricci di Maggia, mi aveva spiegato di darle da mangiare crocchette per gatti e cibo umido. E soprattutto mi disse: “Se mangia tutto, significa che non ne hai dato abbastanza”.
La sua routine era già quella di un vero riccio: di giorno dormiva beata, alla sera preparavo il pasto (acqua sempre disponibile), e dopo circa mezz’ora spuntava con estrema cautela. Prima il nasino che annusava l’aria, per assicurarsi che fosse tutto in ordine, e solo dopo — con grande coraggio — usciva tutta intera. Io ridevo ogni volta: se mi vedeva, si immobilizzava fingendo di essere una piccola statua spinosa.
Alex mi aveva consigliato anche di pesarla ogni giorno. Così nacque il nostro rituale quotidiano: pesare Pepita, pulire la gabbia (perché i ricci, ve lo dico, sono polpette porcellose altro che!), e poi un po’ di libertà nel corridoio, a sgranchirsi le zampette. A volte stava ferma a osservare il mondo, a volte correva come una matta.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito la nostra prima piccola routine insieme.